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venerdì 14 febbraio 2014

Le radici della nostra schiavitù

Vi siete mai chiesti come mai, nonostante una crescita quasi nulla e una disoccupazione ormai dilagante, in Italia e in Europa si continui a parlare solo di debito pubblico e pareggio di bilancio?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare indietro nel tempo fino agli anni '70. In quegli anni un gruppo di economisti diede vita alla cosiddetta "Scuola di Chicago" che, per mezzo del suo massimo esponente e promotore Milton Friedman, iniziò ad opporsi alle teorie keynesiane.

Keynes aveva avuto una "strana" idea, cioè che l'intervento pubblico statale nell'economia, ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica, fosse giustificato in periodi di scarsa domanda e quindi di disoccupazione. Fu sulla scorta di tale concezione che in seguito alla grande crisi del '29, con il famoso "New deal" di Franklin Delano Roosevelt, si gettarono le basi del "welfare state": un sistema in cui lo Stato assicurava alla popolazione dei diritti fondamentali come l'assistenza e la vita dignitosa in caso di disoccupazione e vecchiaia. Sempre con il "New Deal" inoltre mutò anche il ruolo dello Stato nell'economia: il potere pubblico non era più un semplice spettatore ma, viceversa, aveva acquisito un ruolo di regolazione del sistema economico al fine di scongiurare la nascita di forti tensioni sociali, tanto che anche i sindacati ottennero protezione dallo Stato.

Ovviamente tali politiche, che oggi sarebbero denominate populiste, vennero accolte benissimo dall'opinione pubblica (Roosevelt fu confermato Presidente per 4 mandati consecutivi) e si diffusero, a partire dal secondo dopoguerra, in tutto l'occidente. 

Ma nonostante la crescita record di tutte le economie basate sulle teorie keynesiane registrata tra gli anni '50 e '70, la "Scuola di Chicago", come anticipato, iniziò a riproporre un nuovo liberismo puro, giornalisticamente denominato "neoliberismo".

Alla base delle teorie di Friedman e colleghi vi era una presupposta maggiore efficienza del settore privato rispetto a quello pubblico, e quindi l'idea che ogni intervento da parte dello Stato nell'economia andasse eliminato. Pilastro basilare della dottrina neoliberista era proprio l'assunto che il mercato, lasciato libero da qualsiasi condizionamento pubblico, fosse automaticamente in grado di regolarsi e di raggiungere l'equilibrio più profiquo per la collettività. I punti fondamentali di tale dottrina prevedevano quindi la deregolamentazione dei mercati, ampie manovre di privatizzazione di settori dell'economia come sanità, comunicazione, educazione, previdenza sociale e tutela dell'ambiente, e ovviamente la riduzione delle spese sociali.

Tuttavia, questa “visione” secondo la quale gli individui, agendo secondo i propri egoistici interessi, creano benefici massimi per tutti, rende la dottrina economica neoliberista più una ideologia che un modello scientifico con qualche evidenza storica. Infatti non sarebbe altrimenti comprensibile il fondamentalismo estremo con cui è stata portata avanti da poche centinaia di economisti e tecnocrati, di grande e crescente influenza.

Ma se con le politiche di stampo keynesiano l'economia e il benessere stavano raggiungendo tassi di crescita e di diffusione mai sperimentati prima, come hanno fatto i fautori della nuova dottrina neoliberista a convincere il mondo della bontà delle loro ricette?

A tal proposito riportiamo l'esempio del Cile, primo Paese al mondo dove le teorie proposte dalla Scuola di Chicago furono messe in pratica. Negli anni '50 e '60 il Governo cileno investiva nella salute, nell'istruzione e nell'industria, e ciò preoccupava le grandi imprese statunitensi  presenti nel territorio. Intanto un programma di interscambio tra l'Università di Chicago e l'Università Cattolica del Cile determinò la nascita dei "Chicago Boys", economisti cileni che avevano ottenuto il dottorato alla corte di Friedman. Ma in questo clima la svolta determinante si ebbe nel 1970, quando il Governo di Salvador Allende vinse le elezioni promettendo la nazionalizzazione di grandi settori dell'economia.  A quel punto le grandi multinazionali americane iniziarono a temere di perdere definitivamente i propri investimenti, e si generò grande tensione tra il Presidente cileno Allende e quello americano Nixon, finchè non iniziarono i preparativi per il colpo di stato che vide salire al potere il generale Pinochet. Dopo 41 anni di democrazia il Cile divenne così una dittatura militare. Migliaia di dissidenti furono catturati e torturati, mentre Allende morì durante il Golpe. Proprio in questo stato di schock che colpì l'intera popolazione, Pinochet mise in atto per la prima volta le dottrine neoliberiste, assumendo nel Ministero dell'economia i "Chicago boys". Immediatamente fu abolito ogni tipo di controllo sui prezzi, molte imprese statali vennero vendute, furono abolite le barriere alle importazioni e la spesa pubblica subì grandi tagli. Le conseguenze economiche di queste misure furono disastrose per la popolazione e provocarono enormi squilibri sociali. Per continuare ad imporre misure di questo tipo si rendeva quindi necessario instillare un senso di urgenza nei cittadini, era necessario creare un nemico: il marxismo.

Con le stesse dinamiche e metodi con cui i principi neoliberisti vennero imposti in Cile, la nuova dottrina venne introdotta negli annni successivi anche in Brasile ed Argentina. Solo dopo questi primi esperimenti, in Europa e negli Stati Uniti iniziò negli anni '80 un processo di privatizzazioni e deregolamentazione dei mercati ad opera di Ronald Reagan e Margaret Tathcer, le cui azioni congiunte in contrapposizione allo spettro del comunismo russo servirono a convincere l'opinione pubblica della necessità di un cambio di approccio all'economia.

Milton Friedman aveva perfettamente compreso l'utilità delle crisi, economiche o militari che fossero. Da allora le ideologie neoliberiste sono parte integrante della nostra cultura, ed ogni nuova crisi contribuisce a fomentarle e consolidarle. Se qualcosa va storto (l'inflazione sale, la crescita diminuisce, ecc...) ci convincono che l’unica spiegazione è che il mercato non è abbastanza libero.


Ma se ci riflettiamo meglio possiamo comprendere come sia stata la stessa ideologia liberista, con le sue privatizzazioni e la sua deregolamentazione dei mercati, a provocare l'attuale crisi finanziaria globale. Quindi è stato lo stesso liberismo sfrenato, causando la crisi, a costringere gli stati ad intervenire nell'economia, salvando quelle stesse banche private che altrimenti sarebbero fallite. 

E questo, oltre ad essere profondamente ingiusto e intollerabile, non è di per sè un evidente fallimento del mercato libero? 

La dottrina, o meglio l'ideologia neoliberista, è stata progettata e propagandata fin dall'inizio per permettere a pochi di sfruttare molti. Lì dove tutto iniziò, in Sud America, lo hanno capito e stanno già ripartendo da dove erano stati forzatamente interrotti, da Keynes e dal socialismo. Mentre da noi il "nuovo che avanza" promette lo smantellamento dei diritti sociali e grandi privatizzazioni, presidenti come Josè Mujica, Rafael Correa e Hugo Chavez hanno iniziato un'enorme opera di nazionalizzazione, di lotta alle multinazionali e allo sfruttamento, e di aumento della spesa pubblica a fini sociali, anche attraverso il ripudio del debito. 

La primavera sudamericana è iniziata, noi staremo a guardare?

11 commenti:

  1. Sono in parte d'accordo, in momenti di crisi di domanda penso che ricette keynesiane posso essere molto di aiuto. Per quanto riguarda le realtà latino americane da voi descritte occorre fare delle precisazioni: Correa, Chavez, Mujica e Kirchner hanno modi di attuare e risorse molto diverse. Innanzi tutto bisogna ricordare una cosa che può contraddire quanto precedentemente scritto: il paese più sviluppato (sia in termini sociali che economici) dell'area è il Chile. Economia florida e dinamica, con il terziario in notevole crescita e rispetto all'Argentina meno soggetto alle oscillazioni dei prezzi delle materie prime.. Come mai? è possibile che anche le ricette economiche attuate sotto Pinochet hanno avuto effetti positivi nel lungo periodo? Qual'è il segreto del Chile?

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    1. Guarda, non metto in dubbio che privatizzazioni e deregolamentazione dei mercati abbiano determinato una crescita economica del Cile. Però poi bisogna vedere dove vanno a finire le ricchezze, e come sta la gente. Il Cile infatti oggi è il Paese in cui il divario tra il 10% più ricco e il 10% più povero della popolazione è il più ampio tra i paesi OECD. La spesa pubblica per i servizi sociali (tra cui istruzione e salute), che è tra le minori al mondo, poi non fa altro che peggiorare ulteriormente le condizioni delle fasce di reddito più basse. Non ci pare un gran successo dal punto di vista della civiltà e della giustizia sociale. Gli effetti del neoliberismo sono questi, e ormai lo vediamo anche in Italia.

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    2. è vero, ma se confrontato con gli altri paesi latino americani il Chile è senza dubbio il paese messo meglio e che è andato migliorando negli ultimi anni, con una crescita della classe media ed un potere d'acquisto che ormai è più paragonabile al sud dell'Europa che non al resto dell'AM ..cosa ben diversa da quello che sta accadendo in Venezuela

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  2. Altro punto: il Venezuela, nonostante il prezzo del greggio si mantiene alto, è in grosse difficoltà. La politica di Chavez ha avuto buoni effetti per quanto riguarda la ridistribuzione della ricchezza, ma ha completamente distrutto l'industria nazionale e di conseguenza aumentato la dipendenza all'oro nero. Inoltre sta soffrendo di un tasso di inflazione che è tra i + alti della regione e deve affrontare una penuria di beni basici (il più noto è la mancanza della carta igienica dagli scaffali dei supermercati). Non mi sembra un gran successo..

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    1. Ti consigliamo di leggere questo articolo: http://www.counterpunch.org/2014/02/17/venezuela-under-attack-again/
      Raramente le cose stanno come ce le raccontano...

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  3. Comunque bisogna tenere conto che parliamo di realtà diverse dalla nostra, l'Ecuador ha rinegoziato il debito con successo dato che in termini assoluti non era alto, già da qualche anno era riuscito ad avere un bilancio positivo e non meno importante esportando petrolio ha potuto godere dei prezzi alti del barile

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    1. Innanzitutto comunque ti facciamo notare che il post riguardava le teorie di Keynes a confronto con quelle neoliberiste che ci stanno portando alla rovina. Ovviamente il contesto sudamericano è diverso dal nostro (tra l'altro è da vedere se come dici tu siano partiti avvantaggiati loro rispetto a noi...), ma a noi basterebbe uscire dall'euro, e già in quel momento il debito si svaluterebbe automaticamente, e poi soprattutto in quel momento avremmo tutti gli strumenti per decidere noi quando, come, e se pagare i creditori (ovviamente ci riferiamo a quelli esteri, per quelli interni non si pone il problema), che hanno ottenuto un alto rendimento proprio a fronte del rischio che noi non pagassimo. E a giudicare dai tassi, il rischio è alto. L'esempio sudamericano, a cui abbiamo dedicato solo un paio di righe, serviva a far capire che esistono alternative a questo sistema e che alcuni Paesi iniziano a mettere il benessere e la giustizia sociale al primo posto. Uno Stato dovrebbe prima di tutto tutelare i propri cittadini, e non certo permettere un suicidio al giorno per portare avanti politiche di austerity fini a sè stesse, che non potranno mai darci il benchè minimo beneficio. Noi cerchiamo nuove prospettive per la nostra e per le future generazioni, speriamo che almeno su questo siamo d'accordo.

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  4. Per quanto riguarda il punto principale sono d'accordo, pure io ritengo che soluzioni di stampo keynesiano in questo momento siano molto d'aiuto, per quanto riguarda il discorso America Latina ritengo che bisogna anche vedere l'effettivo successo dei paesi presi ad esempio.. Giusto una domanda: in che modo l'uscita dall'euro permetterebbe una svalutazione del debito?

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    1. Perchè i titoli del debito sarebbere ridenominati in "Lire", e questa a detta dei maggiori economisti subirebbe nell'immediato una svalutazione intorno al 20%. In pratica 2000 miliardi di euro diventerebbero 2000 miliardi di lire, ma la lira varrà 20% in meno dell'euro. Quindi il debito rappresenterà un valore intorno all'80% di quello che abbiamo oggi. Per quanto riguarda i creditori nazionali questo non farà differenza, ma per quelli esteri rappresenta una svalutazione vera e propria del debito.

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  5. Per quanto riguarda un ipotetica uscita dall'euro sul piano del debito, credo che difficilmente i creditori esteri possano accettare di convertire i loro crediti in una valuta più debole, è possibile che restituire quel debito (una volta passati alla lira) in euro ci sia il rischio di un impennata del debito? inoltre la svalutazione della moneta rischia di aumentare il prezzo delle importazioni. Direte "meglio, cosi i prodotti italiani risulteranno più convenienti", ma l'Italia è un importatore di materie prime che non possiede (petrolio, gas naturale, minerali) che di conseguenza diventeranno molto più cari, aggiungento l'inflazione che si ripercuoterà sulla popolazione. Altro problema: con una valuta + debole ci sarà una fuga di capitale verso nazioni con valute più forti..L'uscita dall'euro la ritengo decisamente sconveniente, non è meglio che l'Italia invece di lasciare la moneta unica si impegni con altre nazioni a forzare le politiche monetarie della UE verso posizioni più "espansive"?

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    1. Rientra nella nostra sovranità ridenominare il debito pubblico nella valuta nazionale, quindi i creditori non avrebbero alcuna voce in capitolo. Per quanto riguarda la svalutazione ne abbiamo parlato in diversi post... Comunque le importazioni di energia rappresentano meno del 2% del nostro PIL, quindi non sarebbe un gran problema e verrebbe ampiamente compensato dall'aumento delle esportazioni (inoltre magari sarebbe la volta buona per iniziare a puntare sulle rinnovabili). Per le fughe di capitale ovviamente sarà necessario porre delle limitazioni e regolamentazioni. La cosa fondamentale da capire comunque è che non ci sono alternative. Se l'Europa avesse voluto fare politiche più solidali (come farebbe una vera unione tra stati) l'avrebbe già fatto da un pezzo. I casi di Cipro e Grecia non ci insegnano niente? Questa Europa persegue interessi che sono contrastanti a quelli dei popoli, è ora di prenderne atto. Domani potrebbe toccare a noi.

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