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mercoledì 14 maggio 2014

Di chi sono i "nostri" asset strategici?

Ricordate cosa disse il premier Matteo Renzi lo scorso 3 aprile durante un'intervista a "8 e mezzo"? Se non lo ricordate, il video che segue vi rinfrescherà la memoria:


Si parla di ENI, quella che una volta era l'Ente Nazionale Idrocarburi e che dal 1994 è una multinazionale quotata in borsa, di cui lo Stato italiano detiene appena il 30% delle azioni. Ma a dirci cos'è veramente l'ENI ci pensa lo stesso Matteo Renzi: "ENI è un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti. E' un pezzo fondamentale della nostra credibilità nel mondo". Eh sì, avete capito bene: le nostre politiche energetiche, estere e di intelligence sono in mano ad una multinazionale privata. Parola del Presidente del Consiglio. 

Lo Stato italiano comunque, dopo la privatizzazione di ENI, ha conservato dei poteri speciali, tra cui il più rilevante è probabilmente quello di poter nominare 5 dei 9 componenti del Consiglio d'Amministrazione della società. Ma siamo sicuri che questo basti a far sì che le strategie di ENI siano coerenti con i fondamentali obiettivi nazionali di politica energetica, estera e di intelligence? Questa recentissima notizia non lascia molto spazio ai dubbi: l'assemblea degli azionisti di ENI, in data 8 maggio 2014, ha bocciato il "requisito di onorabilità" proposto dal governo, con tanto di applausi. 

In pratica, con il "requisito di onorabilità" si voleva mettere nero su bianco che chi è giudicato colpevole (anche solo in primo grado) di reati di carattere societario o contro la pubblica amministrazione, non può essere scelto come amministratore e, se viene condannato mentre è in carica, deve dimettersi. Ma perchè mai un azionista, che per definizione è interessato unicamente al proprio profitto, dovrebbe accettare una clausola simile? E perchè mai, sempre lo stesso azionista, dovrebbe accettare strategie utili all'interesse pubblico italiano, ma in contrasto con i propri interessi economici? Questo non avverrà mai, e ne è emblematica dimostrazione il caso del "requisito di onorabilità", sul quale tra l'altro non stupisce l'accanita opposizione dell'Amministratore Delegato uscente Paolo Scaroni, guarda un po' già condannato per tangenti nel '96, per aver inquinato il territorio del delta del Po con l'Enel nel 2011 e nuovamente per tangenti nel 2013. Di onorabile, in tutto questo, effettivamente cogliamo ben poco.

A questo punto lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi è inquietante a dir poco. In pratica, le nostre politiche estere, energetiche e di intelligence sono in mano a degli azionisti privati, che possono porre il veto su decisioni fondamentali per l'interesse pubblico se temono che queste decisioni possano arrecare danni ai propri profitti. Come possiamo pensare che il governo possa effettivamente promuovere, per esempio, una politica di riconversione energetica dal fossile alle rinnovabili se non è neppure in grado di far applicare un elementare principio etico come il "requisito di onorabilità"? La gravità di tutto questo è innegabile, ma forse colpisce ancor di più il fatto che il nostro Presidente del Consiglio sembri convinto di poter contare su ENI per portare avanti le proprie politiche energetiche, estere e addirittura di intelligence, trascurando che invece ENI risponde unicamente alle logiche di profitto dei propri azionisti. Si tratta di ignoranza pura, oppure Renzi vuole subdolamente convincerci di avere sotto controllo un pezzo tanto nevralgico del nostro patrimonio pubblico come ENI? Tra le due non sapremmo scegliere la meno peggio.

L'unica certezza che abbiamo è che non possiamo permettere al mercato di gestire a proprio piacimento asset strategici, fondamentali per il nostro Paese, come ENI, Enel, Poste e Finmeccanica, o di appropriarsi di beni e servizi pubblici essenziali come l'acqua, l'istruzione e la sanità. Non possiamo permettere la ripetizione di un ulteriore scandalo Telecom, che ci condannerà per sempre all'arretratezza tecnologica mentre il resto del mondo si digitalizza. Per non parlare poi del caso Bankitalia, che fino a poco fa si riteneva essere un Istituto di diritto pubblico solo formalmente privato, ma che ora tende sempre più, soprattutto in seguito al famoso decreto Imu-Bankitalia, ad assumere le sembianze di una società per azioni privata a tutti gli effetti. 

Il primo passo non può che consistere nel riappropriarci delle sovranità politica, economica e monetaria, ormai tristemente privatizzate anch'esse in quanto sottomesse a mere logiche di mercato. Questi strumenti, necessari tra le altre cose per riprendere il controllo dei nostri asset strategici, devono tornare nelle mani dello Stato, che a sua volta deve tornare nelle mani dei cittadini prima che sia troppo tardi. Qui non si tratta neanche più di liberismo o statalismo, destra o sinistra, buoni o cattivi. Dobbiamo superare tutte queste barriere e far fronte comune per riappropriarci delle nostre ricchezze. Si tratta del nostro futuro, sia come individui che come Paese, si tratta di cosa lasceremo alle prossime generazioni di italiani.

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